Le storie del Milan

M. Ansani, G. Cervi, G. Sacco, C. Sanfilippo
1899
A.C. Milan. Le storie
Milano, Hoepli, 2019
Scheda
Sito
Rassegna stampa

120 anni di storia sentimentale in rosso e nero. Dal Milan delle origini ai nostri giorni: scudetti, coppe, palloni d'oro, partite epiche, stadi di tutto il mondo e soprattutto campioni leggendari raccontati come in un grande romanzo popolare. Una passione tramandata di generazione in generazione, dagli albori al Gre-No-Li, da Schiaffino a Rivera, da Rocco a Sacchi, dalla dinastia Maldini a Van Basten e a Shevchenko, passando per Wembley, la ‘fatal Verona’, Barcellona, Atene, Istanbul e ancora Atene, e in attesa della riscossa.

"Di storie antiche e recenti delle squadre di calcio son piene librerie e bancarelle. Con uno spettro che va dall'onesto e in qualche raro caso ricercato percorso storico, alla marchetta tout court. La vostra è decisamente fuori catalogo: non a caso per venirne a capo vi siete messi in quattro. Ma in quattro vi siete anche fatti. Per l'accuratezza nella ricerca delle fonti, la qualità della scrittura, il gioco di incastri tematici che mi ha ricordato i tempi in cui le pagine di giornale erano impreziosite dalla manchette, che almeno a me rubava l'occhio ben più dell'articolo portante. Dove le foto, se c'erano, non erano le gigantografie riempitive di oggi perché era la scrittura stessa ad illustrare i racconti o i personaggi.
Lo dico perché nelle vostre Storie rossonere di foto non c'è meritoriamente traccia e tutto è affidato alla potenza evocativa della parola. Così Carletto Annovazzi, per dirne uno, è un bel moro dai capelli crespi e le sopracciglia folte che tendono alla continuità frontale, un naso a patata e uno sguardo dalla bonarietà schietta e rassicurante. Tell lì, el negher de viale Umbria, fatto e sputato. Senza bisogno di immaginetta, tanto meno dei tempi di lettura della spaventevole Gazzetta dei nostri giorni.
Ci metterò un bel po' ad arrivare in fondo, chissà se ripartendo dall'inizio. Per ora ho divorato gli anni '50 e l'epopea del mio amato Paròn. A proposito, grazie delle citazioni che tanto mi fanno girar le balle quando sbucano a tradimento da trasmissioni o libercoli di terz'ordine, e tanto mi titillano quel po' di senile vanità in un'opera di questo livello. Per ora il mio capitolo preferito è 'Il Milan al cinematografo'. Conoscevo per ragioni anagrafiche la storia della 'Settimana Incom', non quella di Giacomo Debenedetti e del suo stentoreo doppiatore. Conto di gustarmene altre un po' alla volta. E vi ringrazio di avermi risolto almeno uno dei classici problemi natalizi: per quest'anno agli amici milanisti non vino ma opere di Milan".

Gigi Garanzini

Un ineguagliato genio del pallone

Leoncarlo Settimelli
L'allenatore errante
Storia dell'uomo che fece vincere cinque scudetti al Grande Torino
Arezzo, Editrice Zona, 2006
Scheda

Tra le squadre di calcio italiane, ce n'è una - il Torino - che può vantare, tra i molti primati, d'aver vinto cinque scudetti consecutivi, negli anni più terribili e al tempo stesso esaltanti della nostra storia: 1942-43, 1945-46 (i due campionati precedenti non furono disputati, per via della guerra), 1946-47, 1947-48, 1948-49. Quest'ultimo fu assegnato "d'ufficio": i granata erano già matematicamente campioni d'Italia quando - di ritorno da Lisbona per un'amichevole - l'aereo sul quale viaggiavano, un trimotore Fiat 202, si schiantò contro la collina di Superga. Era il pomeriggio del 4 maggio 1949. Il bilancio di quella tragedia fu di trentuno morti, nessun superstite. A bordo, ovviamente, c'era anche l'artefice di quella ininterrotta serie di trionfi, ch'erano valsi alla squadra l'appellativo di "Grande Torino": un ineguagliato genio del pallone, l'allenatore Ernest "Egri" Erbstein. Ebreo ungherese, immigrato in Italia nel 1919, costretto ad abbandonare il nostro paese nel 1938 con l'avvento delle leggi razziali, fortunosamente scampato alla barbarie nazista, 51 anni, sposato e con due figlie. Eppure, Erbstein è un nome dimenticato, la sua immagine appare raramente anche nelle foto ufficiali. Perché?

Soccer revolution

Willy Meisl
Soccer revolution
London, Phoenix Sports Books, 1955
Autore | anche qui

Arguably the most prescient football book ever written. Meisl (the brother of Austrian Wunderteam coach, Hugo) charts the history of English football and studies the mistakes that led England to their 1953 humbling at the hands of Hungary. The changes advocated by Meisl, who saw himself as an adopted Englishman, were the same that now meet England’s biennial tournament disasters. Meisl is strongly in favour of improving the technical ability of English players and promotes the concept of the “whirl”, effectively “total football”, as the route to success. The fact that such flaws have gone uncorrected for almost 60 years only serves to underline the enduring resonance of this masterpiece (Ademir to Zizinho).

Il libro che nel 1955 di fatto pone le basi teoriche di quello che quindici anni più tardi sarà il calcio totale. Lo spunto viene dalla doppia, traumatica sconfitta incassata dalla nazionale inglese per mano dell’Ungheria di Puskas nel giro di sei mesi: prima il 3-6 di Wembley – tuttora la peggior disfatta interna dell’Inghilterra, che aveva avuto un fortissimo impatto sull'opinione pubblica – e poi l’1-7 di Budapest. Disfatte che, prima ancora che all'Ungheria, erano da attribuire all'atteggiamento degli inglesi stessi, ben riassunto dal sottotitolo del libro: “La Gran Bretagna ha insegnato al mondo a giocare e ad amare il calcio, per poi ricevere una dura lezione dai suoi vecchi allievi”. Meisl individua la causa della decadenza nella mancanza di immaginazione, caratteristica connaturata all'Inghilterra: «Willy, per l’amor del cielo, non essere mai brillante!», si era raccomandato in tono grave il cognato, al momento della sua partenza per Londra.

Le squadre inglesi avevano continuato a privilegiare l’aspetto fisico su quello tecnico-tattico, finché il disastro di Wembley non aveva mostrato che «il cervello vince sui muscoli». Anche il Mondiale del 1954 era la prova di come il successo passasse, oltre che per i dribbling, anche attraverso la capacità di passarsi la palla con un solo tocco: appena un giocatore completa un passaggio, subito scatta in una nuova posizione, in attesa di un’ulteriore giocata. È proprio questa attenzione alla giocata ulteriore – il “terzo uomo” per dirla con Cruijff – che fa la differenza rispetto al kick and rush degli integralisti inglesi. «Dobbiamo liberare la nostra gioventù calcistica dall'obbligo di giocare su ordinazione – scrive Meisl – lungo binari prestabiliti. Dobbiamo dare loro idee e incoraggiarli a sviluppare le proprie». Sembra “L’attimo fuggente”, invece è “Soccer revolution”, che poi elenca chiaramente i fondamenti del calcio brilliant che in quegli anni nessuno esprimeva meglio dell’Ungheria: eccellente controllo di palla individuale, gioco posizionale intelligente in fase di non possesso, passaggi precisi grazie a un perfetto dominio del pallone, coesione e comprensione reciproca, potenza nel tiro e rapidità – concetto ben diverso, questo, dalla velocità a tutti i costi degli inglesi.

Era il 1955. Ci sarebbero voluti quindici anni e diversi passaggi intermedi, di cui molti in lingua inglese, affinché tutto questo diventasse il manifesto programmatico di una squadra e forse di un’intera generazione. Ma è stato un giornalista a dirlo prima di tutti gli altri – con buona pace di Cruijff.