Mio Capitano

Nando Dalla Chiesa
Capitano, mio Capitano
La leggenda di Armando Picchi, livornese nerazzurro
Arezzo, Limina, 2005 (nuova edizione)
Scheda

Capitano dell'Inter leggendaria degli anni Sessanta. Interprete più grande al mondo, anzi interprete per antonomasia, del ruolo del libero, ultimo baluardo davanti al portiere in cento battaglie seguite con il cuore in gola da milioni di spettatori. Leader tattico ma soprattutto umano e morale della sua squadra. Sindacalista coraggioso e altruista quando i calciatori erano privi di diritti. Armando Picchi l'esempio, uno dei pochi nella storia del calcio, del campione che conosce e difende con coerenza i grandi valori che nutrono le società civili: il rispetto degli altri, il coraggio delle proprie scelte, lo spirito di indipendenza, la serietà professionale, la solidarietà, l'amicizia, il senso profondo delle proprie radici. Livornese purissimo, una famiglia di marinai, un nonno anarchico e un nonno repubblicano costretto all'esilio, egli portò nella Grande Inter di Herrera e di Moratti tutto lo spirito ribelle e irriverente, ma anche combattivo e indomabile, ereditato dalla sua terra e dalla sua famiglia. E di quello spirito fece il cemento morale fortissimo della prima squadra italiana che vinse tutto al mondo, vanto della Milano capitale della nuova società industriale. Per questo suo carisma, Picchi entrò in contrasto con il Mago, Helenio Herrera, che pure lo aveva voluto capitano. Stessa passione totale per il calcio, stessa voglia di vincere sempre, i due differivano per la visione che avevano del calcio, del denaro e della vita. Il capitano con la patria e l'allenatore senza patria si guardarono alla fine in faccia e non si piacquero. Vinse il pi forte. Picchi venne trasferito a una squadra di provincia, il Varese. E di lì continuò a meritarsi la Nazionale, dalla quale era stato a lungo escluso (fino alla disfatta con la Corea) per le polemiche del suo ruolo. La sua carriera di calciatore fu stroncata proprio da un incidente nella squadra azzurra alla vigilia della vittoria negli europei del '68. Ricominciò da allenatore. Dopo una brillante e breve esperienza al Livorno, lo volle la Juve di Boniperti e Allodi. Sembrò la sua rivincita su una storia che non gli aveva risparmiato le amarezze. Sposato con una modella bellissima, allenatore più giovane della serie A nella squadra più popolare d'Italia che partiva verso un ciclo di scudetti, per qualche mese rappresentò, invidiato e ammirato, lo svecchiamento del mondo del calcio. Lo prese d'improvviso un tumore che lo immobilizzò alle gambe. Accettò questa fine dopo l'ultima battaglia: La vita mi ha dato tanto disse, ma tutto maledettamente in fretta. Quando morì, Livorno, la sua città lo salutò come si salutano gli eroi. La storia dà spazio all'immaginazione sociologica e alla dimensione extracalcistica del racconto: dalla bella metafora del popolo delle camicie bianche, di cui Armando Picchi è oggi il simbolico Capitano a quella del guerriero zoppo attinta alla mitologia indoeuropea e che percorre come un filo rosso tutta la narrazione.



He was the Captain of the legendary Inter team of the sixties. He was the greatest libero in the world, the last defence in front of the goalkeeper in hundreds of matches. He was not only the tactic, but also the human and moral leader of the team. He was a courageous and altruistic trade unionist when footballers had no rights at all. He is one of the few examples in the history of football that knows and defends the great values of society with coherence: respect for the others, courage of our choices, spirit of independence, professional reliability, solidarity, friendship and deep sense of our roots. He was from Leghorn and his family of sailors had lived there for generations. One of his grandfathers was an anarchist, the other one a republican obliged to go into exile. So he brought the rebellious, irreverent, but also pugnacious spirit he had inherited to the Great Inter team of Herrera and Moratti. His spirit became the moral link of the first Italian team that won all possible cups and was the pride of Milan, capital of the new industrial society. For this reason he had some contrasts with Helenio Herrera, the Magician, that anyway had made him captain. They shared the same total passion for football and they both wanted to win always, but they had a different vision of football, money and life. The captain with a home and the coach without it looked each other in the eyes and did not like each other. It was the strongest to win. Picchi was transferred to Varese, a much smaller town. But he still played in the national team from which he had been long excluded (until the defeat versus the Corean team) because of his particular role. His career of footballer was cut short by an accident in the Italian team just before the victory of the European Cup in 1968. He started all over again as a coach. After a short but successful experience with the Leghorn team, he was called to train Boniperti and Allodi's Juventus. It was his revenge. His life had been full of disappointments. He was married to a wonderful fashion model, he was the youngest coach in the first division, his team was the most popular in Italy and was going to win several championships, so he has represented a new era in the football world for some months. A sudden cancer blocked his legs. He accepted this end saying: Life gave me a lot, but too in a hurry. When he died, Leghorn, his town, bad the last farewell to him as if he were a hero. The story gives space to the sociological dimension too. In fact, there are two nice metaphors; the first one of the people in white shirts, of whom Armando Picchi is now their symbolic Captain, and the second one of the lame warrior borrowed from the Indo-European mythology.